Riflessioni di un pistolero

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Riflessioni di un pistolero

Capitolo I

Come quasi ogni giorno della sua esistenza errabonda vissuta fino ad allora, egli se ne andava in giro in groppa al suo fidato destriero, da lui chiamato Edgar. Nome strano per un cavallo, certo. Tale nome glielo aveva appioppato per il fatto che fin da giovane era sempre stato un grande appassionato di letteratura, e tra le sue letture preferite vi erano state le opere di Edgar Allan Poe. La notevole mole delle letture da lui intraprese lo avevano reso un uomo di cultura piuttosto invidiabile; le sue nozioni superavano di gran lunga quelle della maggior parte degli abitanti della frontiera, con cui egli era pur solito confrontarsi quotidianamente. Questa insolita situazione era resa ancor più strana dal “mestiere” che Basil aveva deciso di intraprendere: egli era infatti un pistolero, un duellante di professione, con il solo scopo di misurarsi con la maggior quantità possibile di avversari ad ogni polverosa cittadina che incontrava lungo il suo cammino. Oramai ovunque era conosciuto il nome di Basil Thunder; persino uomini duri, decisi e considerati pistoleri infallibili, al pari di Johnny “Sei Colpi” Lookford, oppure addirittura Pablo “Mexican Killer” Cayetano , una volta confrontatisi con le canne delle sue armi, avevano avuto la peggio, ed erano andati ad ingrossare le file delle vittime del duellante, il quale, nonostante la sua già notevole fama, all’epoca del racconto aveva appena 28 anni. Ma la vita della frontiera – si sa – fa maturare in fretta. Basil aveva iniziato a maneggiare le pistole fin da dieci anni. Era infatti figlio di una coppia di coloni, i coniugi Jack e Marion Thunder, che, al pari di numerose altre famiglie, avevano scelto di intraprendere la dura via del West per sperare in un futuro migliore. In tali condizioni, saper maneggiare un’arma (preferibilmente da fuoco) era d’obbligo: suo padre diceva sempre al piccolo Basil, mettendogli una pistola tra le mani: “Ricorda, figliolo: Se non sai usare una di queste, non sei nessuno.”. In effetti, numerosi erano i pericoli di quelle zone: indiani, fuorilegge, lupi, puma, e ogni altro genere di belve, sia selvagge che “civilizzate”. Non aveva tutti i torti, Jack, quando diceva queste cose al figlio. Ma Basil aveva preso molto sul serio i consigli del padre, tanto che, appena i genitori erano morti, ossia quando Basil aveva 19 anni, egli aveva venduto il ranch, tenendosi solamente poche manciate di dollari e un cavallo, che gli sarebbe stato utile per i futuri spostamenti. Da quel momento, intraprese la vita dell’errabondo, vagando da un posto all’altro al solo fine di dimostrare, a sé stesso e agli altri, quanto ci sapeva fare con le armi, perché “se non le sai usare non sei nessuno”. Eppure qualcosa non lo convinceva.
 
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Capitolo II

Ultimamente Basil aveva avuto molto da pensare. Un uomo di cultura quale era lui stava iniziando a fare delle severe riflessioni sulla effettiva bontà della sua condotta di vita. Quante persone, quanti esseri umani aveva ucciso durante i suoi quasi quotidiani duelli? Cinquanta, sessanta, forse di più. In realtà Basil se lo ricordava bene, avendo una forte memoria: 86. Cercava però di non pensarci troppo spesso, affinché non fosse tormentato da qualche senso di colpa. Tutto ciò che avrebbe voluto tenere a mente erano le parole di suo padre: “Se non sai maneggiare un’arma non sei nessuno”. Basil aveva sempre cercato di rendere orgoglioso il padre: fin da piccolo si era distinto le volte che avevano dovuto difendere il ranch da un gruppo di indiani ubriachi, o da qualche bandito in cerca di facili rapine. Fin da allora aveva dimostrato una innata propensione alle armi, spesso e volentieri riuscendo a scongiurare quasi da solo i pericoli che gravavano sulla famiglia, e ricevendo solo rare volte un proiettile in una gamba o in una spalla. Sua madre vedeva in cosa si stava trasformando il figlio, sempre in prima linea per dimostrare al genitore quanto egli dovesse essere orgoglioso di lui. Però non riteneva che fosse una cosa tanto negativa, anche perché, come già detto, per sopravvivere in una terra selvaggia bisogna essere pronti a tutto. Nel corso degli anni, però, quella di Basil si era trasformata in una autentica ossessione. Anche alla morte dei genitori, entrambi deceduti per una malattia che Basil non aveva contratto perché subito allontanato da casa dai familiari, egli non aveva smesso di compiere gesti che, secondo lui, avrebbero potuto “rendere orgoglioso suo padre”. Non perché credeva che i suoi lo guardassero “dall’alto”. Basil non era religioso. Aveva letto e imparato troppo per esserlo. I suoi genitori lo erano, e nei primi anni di vita anche lui era andato nella chiesa del paese più vicino con regolarità, insieme alla sua famiglia, ogni domenica. Ma col tempo aveva perso quest’abitudine, così come aveva perso la fede. Per questo non pregava mai per coloro che uccideva. Da ragazzo aveva però letto un saggio sulla metempsicosi, trattante idee e pensieri di Platone, e spesso dunque pensava “In fondo, le loro anime non sono morte, e presto si reincarneranno in un altro essere vivente. Quindi, non li ho davvero uccisi”. A volte faceva questo ragionamento per scacciare i demoni quali sono i sensi di colpa, e poi riprendeva a pensare al suo obiettivo, dimostrare a chiunque quanto lui fosse migliore di tutti, affinché suo padre, chissà, forse ora nel corpo di un altro animale, fosse sempre e comunque orgoglioso di lui. In definitiva, però, non credeva veramente nemmeno alla reincarnazione. La utilizzava solamente come pretesto, come rincuorante pensiero che qualcosa, se non il Paradiso e l’Inferno, dopo la morte ci fosse. Insomma, una rassicurante bugia, al posto di quella che considerava una terribile e proibita verità, ovvero che dopo la morte nulla veramente ci sia. Non credeva in nulla, se non nel fatto che dovesse dimostrare di essere il migliore.
 
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Scusate l'interruzione, per impegni nel real non ho avuto più tempo di scrivere. Dovrei riprendere entro pochi giorni (sempre che interessi a qualcuno, la mia storia) :D.
 
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